Renato Filippelli

dai fatti al web

Il cinto della Veronica (1964)

A Fiammetta

Tu fosti concepita
sulle rive del Tirreno,
di sera colma, a rombo
di vento e di marea.
Tua madre ebbe sopore dalla luna
e dalle mie parole.
Fu come l’erba dove passa il vento.

Tu intenerivi di presentimenti

( Alla madre)

Tu intenerivi di presentimenti
la terra e il cielo.
Io mi fermavo attonito: passava
la tua voce su nenie antelucane
di donne in riga a pascoli di strame
o inginocchiate sulle pietre vive
dei greti a sciorinare stoffe in rivi
stellati…O madre, esile madre, colma
fu questa notte la pietà dell’ombra:
io salivo la strada degli ulivi,
la tua collina cava come un’anima.
Poi trovavo la luce della soglia,
la tua carne lunare sul tuo volto,
la lama del tuo grido che si snuda.
Ma oltre il limite d’alba sei di pietra;
una statua di pietra, su cui cade
questo inverno di rami, un altro inverno.
Ieri scrivevi: “Vengono
le annate, tristi, o figlio ancora ti vorrei
nel mio povero grembo come un seme”.

Danzarono disparvero ai confini…

I bimbi del quadrivio
ci avvolsero a ghirlanda.
Danzarono disparvero ai confini
di una luce d’avemarie.
E allora mi chinai s’un tuo sorriso
che non ti conoscevo,
e ti posai pensieri sopra il cuore
come ali plumbee.
“Tristezza-dissi- di temere un figlio
nostro, su strada breve”.
Poi ti raccolsi fra le palme il volto,
ma non ebbi tepore del tuo pianto,
ché indugio era ai tuoi occhi dello strano
sorridere remoto.
Cadde un silenzio, e poi soffrimmo l’ombre
dei monti fuggitivi verso il mare.

Io venivo dall’alba

Io venivo dall’alba,
dalla calda
palpitazione della vita in fiore.
Tu dicevi, in un soffio:
“Chinati un poco sul mio volto, ch’io/
ti veda gli occhi dove fluttua l’onda
verde delle colline.”
Io ti parlavo di resurrezioni
di luce alla natia
terra sui cieli della primavera
nostra. Giacevi un poco in ansia, come
avessi un desiderio di cammino.
Un mattino, sorelle nel dolore
sul tuo silenzio
strinsero ghirlande
di fiori. Erano pallide sorelle,
con te sepolte in una bianca casa,
soavi e inferme sulle soglie d’ombra.
Io ti chiamai, ti singhiozzai parole
dei nostri verdi palpiti remoti.
Vedevo strade e la mia solitudine.
Tu avevi un’appagata grazia:
spazi rinchiusi nelle tue pupille

A volte avevi gemiti nel sonno

Aprivi la mia porta, in levità. Fiume di Plenilunio,
odoroso di cedri,
era la bianca strada sul tuo abbrivo
di cerbiatta in amore.
Dolorosa impazienza dei tuoi seni
sulle palme cave;
fiori silvestri di parole
nude sulla bocca.
A volte avevi gemiti nel sonno,
quasi un inconscio pianto di colomba
sul tuo peccato.
Svanivi in un brano di cielo,
intrisa d’un mio polline di sangue.
E avevi a volte un riso
chiaro sui denti, un occhio di sorgive, innocente come il mattino.

Con passi di fanciulla…

Giorno che in me dichina
soffre tutti gli addii dei miei ricordi.
E l’ombra delle foglie si contorce
nella luce selvaggia …
Nostra amica poesia
abbassa le sue palpebre, sorride.
So la tua sorte. S’alzano muraglie, verdi fiorite d’edera,
a cingere il tuo sonno e le parole ultime che ti dissi nell’argentea
luce dei colli.
Poi fu l’autunno. Venne
con passi di fanciulla trasognata sul mio cuore.

Dicesti: «Porto una tua vita in grembo … »

… E fu l’amore.
Tu avevi a sera bianchi riflessi sulla voce,
portavi sempre una trepidazione nuziale
sopra la tua carne esangue,
e sempre un dono vergine, ad ogni alba.
Venne la primavera.
Fiume lanciava lungo la pianura:
fremito e luce di colombe in volo
Fiume bianco
di desideri; tu ne amavi l’ombra. Spenta la gioventù
ebbra dèll’onda, richiamo ti giungeva dalla foce
mite lontana solitaria.
E fu la morte. Mani
cadute inerti in solchi di silenzio.
Sbigottito scrutarti a fior dell’ anima …
Tu avevi un puro volto,
fermo: come di statua,
e all’iridi non so che nostalgia.
Dicesti: «porto una tua vita in grembo … »
E avevi un’ombra di felicità.

E tremano su arcangeli di morte …

Chiese di Gaeta:
Frutti a scogliere pensili, conchiglie
dove sonora è l’ombra.
Come son dolci i tuoi pensieri in quelle
chiese che un mare verde aspro sommerse,
un mare che non seppe altri che l’anima
nostra … Come san pure le mie mani
e il cuore che fa un arco sul tuo cuore.
Sè levato un gran vento, una folata
di lontani profumi, una carezza
rude d’una memoria saracena …
E tremano su arcangeli di morte
ali di pietra.
A notte più non esita il dolore. Chiesa di Gaeta, ‘
dove portammo ebbrezza
di venire dal mare,
d’essere così giovani
per le distese della luce. Dove saliva l’ombra
di un mare saraceno,
e il primo fiato della primavera.

In conca di luce nuziale

Sulla strada del colle, a fil di cielo,
si rinnova e si sfiora
la tua verginità,
e lungo fai singulto fino al mare.
Iddio creatore
alzò per noi l’ala delle maree,
fiorì la cinta al colle di Munazio
questa dolce terra di Gaeta.
Noi s’attende la morte come un canto,
e già preludia al sangue:
è la nostra purezza.
Si giace ad occhi spenti
in conca di luce nuziale,
e pudore non sale
d’essere cosi nudi
sotto un grido di procellarie.

Poi ti scolpivi il volto dell’attesa …

E quando oscura nostalgia
d’un silenzio più fondo,
ci induceva a cancelli ampi di chiostri,
sempre chinavi il capo
ad ascoltarmi il cuore.
Poi ti scolpivi il volto dell’attesa.
Dicevi: «Ho una verginità
nuova di sogni e di parole
da offrire alla morte.
Un canto sordo si fa grande: è un mare … »
Evocavi le vergini defunte
convenire nei vesperi ai giardini:
bianche colombe intorno ai pozzi, e orare: ricamare il
silenzio …

Villa di Capua nel mattino

Villa di Capua nel mattino. Odore
di carnea primavera macerata
nei canali.
Immagini di tempo dissepolte,
a lusinga
di recise corolle dei miei sensi.
Tremavi come l’orlo della veste
del fiume, il giorno che tentai tuo seno,
e seppi la sorpresa
di brividi di rose.
Il vento scava nel trifoglio l’orma
della tua prima offerta.
E navighi a deriva nel mio sogno.

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