Renato Filippelli

dai fatti al web

Vent’anni (1956)

La prima rondine

Come son giunto presso il cancelletto,
m’ha fatto dono d’un garrito fresco,
quasi un invito alla poesia, spiando
il mio stupore dal suo nascondiglio.
E come l’ho cercata! Con negli occhi
il dono di non so qual gioia pura,
e l’ho scoperta! (troppo la testina
muoveva in grazia civettuola, e il petto
bianco ha spiccato sul muretto grigio)
e l’ho ghermita nel mio pugno chiuso.
L’ho imprigionata sotto la camicia;
ed ora sento il fremito dell’ali,
la levità spaurita del suo cuore
sul mio torace ignudo, e sento il becco
esile duro vellicarmi il nodo
dell’ombelico, senza farmi male…
E son felice… e gitto un grido chiaro.
Alla sorella bimba; e, come giunge,
apro sul petto la camicia, e lei
ratta s’invola per le vie del sole,
quasi un pensiero nato dal mio cuore…

La Pastorale

Mi segui per via, mi circondi
di spaurita dolcezza, tenti il cuore
con parole di sogno, ed ecco, smuori
nel pianto, stanca della mia protervia.
Ma che vuoi? Ch’io ritrovi l’improvviso
stupore al tuo messaggio, e che ricorra
ad annunziarti al coro dei bambini,
raggiante, ed al sorriso della madre?
O che vada pe’ monti col canestro
di vimini, e ricerchi le cinture
verdi del muschio intorno alle pietraie,
e prepari il presepio all’innocenza
dell’ultima sorella? Od anche solo
ch’io guardi al fondo del mio cuore, dove
nel rimpianto di ciò che fu perduto
si disgeli la fonte delle lagrime?

Al mare

Vissi sui monti lungamente: e in sogno
mi fingevo il tuo grido
che batte le scogliere. Di lontano
ti dicevo parole, e mi pareva
gittarti fiori…

Siccità

La mia gente scendeva dalle case
della montagna, dietro una gran croce
nera nel sole, fino al litorale.
Ripiegava i ginocchi sulla sabbia,
ed il maestrale disperdeva al mare
la preghiera concorde: “Gesù Cristo,
fa’ che scenda la pioggia” ed io vedevo
volti di vecchi scarni, allucinati
nella vampa, e le palme delle donne
levate, e gli occhi teneri dei bimbi.
Il grano scolorava sulle porche,
reclinava, smoriva… Oh, sovvenire,
padre, della tua mano sul mio capo,
trepida e buona, e della tua tristezza
d’allora: “prega, mi dicevi, prega
tu, che sei innocente…”
Speculavamo, intenti,
se il cielo s’annerasse alla marina,
ma rosseggiava in cumuli beffardi,
ventoso, sulla fragile preghiera.
A notte,
avviticchiati, sognavamo il grano
rivivere alle stille,
accestire, granire, con lo stocco
alto, sicuro, e i canti, ed i mannelli
biondi, la battitura, il viso
raggiante della madre.

Presagio

(all’amico Peppino Messa)

Un giorno,
uccideranno il tuo fragile cuore,
o mia poesia.
Ti strapperanno con oscura forza,
ignara e dolce, dalla solitudine.
Bave striscianti d’odio
ripasseranno su la tua innocenza.
Ti sentirò, sperduto tra le folle,
tremante che t’aggrappi sul mio petto,
stupita dei miei occhi senza lagrime

Una storia vera

Dedico questi versi dei miei vent’anni a quei pochi soldati tedeschi che nel corso del secondo conflitto mondiale, nonostante le aberrazioni dell’ideologia nazista, seppero conservarsi umani.

Son tredici anni, in fragorosi stormi
picchiarono le “cacce” alla vallata
di S. Felice, uccisero una madre.
Curva alla fonte risciacquava fasce
e camiciole del suo nato; cadde
senza alcun grido, insanguinò la polla
esile, giacque sotto il cielo azzurro.
Nonno Michele preparò quattro assi
d’abete, pianse nella sua casipola,
ma piano, sì che seguitò il suo sonno
l’orfano nella culla di vincastro.
V’era, presso la fonte, la chiesuola
della Madonna della neve, antica
più del villaggio a cui dalle pareti
spioveva a ciuffi l’edera, il muschio
fino vestiva il lastrico di pietra.
Ivi posò la bara; alle folate,
dal tetto aperto, un nugolo di foglie
morte scendeva sulla morta, piana,
dolce carezza, e così malinconica.
Nonno Michele, trasognato in volto,
guardava, a tergo dell’altare breve,
sul muro screpolato, l’altra Madre;
guardava il figlio ch’Ella aveva in grembo,
il bimbo ch’egli si stringeva al cuore,
fragile e ignaro, ch’era tanto tanto
rassomigliante al piccolo Gesù.
Venne la sera e al nonno, pel consòlo,
portarono vivande, legna, lagrime
di carità… ma l’orfano vagiva,
aveva sete, e protendeva in ansia
le sue manine e si congestionava
nel viso a quel suo pianto senza lagrime.

Le donne si guardavano in tristezza:
erano vecchie o vergini, non una
madre tra loro, solo quella madre
dal cuore infranto… Dissero: “A Valogno
la Valentina partorì di fresco,
sta sulla balza, a manca dei “Perroni”,
non negherebbe, ma la strada è infìda:
i Tedeschi v’uccisero Edmondo
lo spaccapietre, Cosimo il mugnaio,
Bartolomeo mentre correva al figlio
braccato; quelli non hanno riguardo.”
Ecco la notte. E che silenzio! solo
il gorgoglio delle fontane sotto
la luna bianca, vivida, a ronchetto.
Nonno Michele con la sua creaturina
stretta sul petto s’avviò al sentiero
campestre, ascese in buona lena il greppo
poi scese a valle, e fu alla via maestra.
Ecco il paesino, tacito, spaurito,
ecco, non lungi dalla siepe bassa
della mortella, il camposanto antico,
e poi le rocce dei “Perroni”, bianche
levigate dai rivi… andava senza
tremore, figurandosi il piccino
al seno saldo della madre nuova
rivivere, pensava le parole
che direbbe sull’uscio alla pietosa,
e lesto andava, col fiato leggero.
Ma, d’improvviso, un tramestìo di passi
greve sonò sopra le rocce, lungi;
e da presso una voce breve ed aspra
gli gridava. Si volse. Ed il Tedesco
lo puntava con l’arma. Egli rimosse
lo scialle che copriva l’innocente
e il viso emerse, bianco come un giglio,
sotto la luna vivida.
Quegli fissava il pargolo, non era
giovine, e il viso aveva triste e scarno.
Forse era nonno e si risovveniva
di una culla, del figlio di suo figlio.
E l’altro nonno gli diceva cose
di strazio, di dolcezza, di preghiera,
con gli occhi fermi, fissi nei suoi occhi.
Quegli sorrise, e lo lasciò passare…

Il vento d’aprile…

… Aspetta che tu venga alla mia volta
pei sentieri boschivi, e poi che t’ama
d’un suo amore selvaggio all’improvviso
irrompe tra le querce centenarie,
e ti ravvolge e ti sospinge in corsa
per lungo tratto, e come t’abbandoni
esausta, si fa gioco della gonna
leggera, cinge di carezza audace
le caviglie, i ginocchi e sale al grembo
vergine, gode per il tuo sgomento.
E tu sei bella in quel vano schermire
le grazie nude, poi che ti raggiunge
il mio riso giocondo da la soglia.
Ti do lena col grido, ed or, rifatta
fresca, ti snodi dall’amplesso rude;
e lui t’insegue, in ira, e sta per giungerti;
t’affrena quasi, raccogliendo l’impeto.
Ma già ti serro nelle braccia umane
vibrante al riso di sentirmi giovine;
ti porto a volo per la soglia, irrido
l’amante vinto oltre la porta chiusa.
Nella penombra cerco la tua bocca,
e bevo a sorsi tutta la fragranza
del bosco, in questo aprile redentore.

Ad un cane

T’uccisero un mattino, ed eri vecchio
e stanco tanto che neppure un grido
levasti dalla gola e poche stille
tinsero lo sterrato. L’assassino
t’accusò che irrompevi nei pollai
dei vicini e straziavi; ti finiva,
invece, perchè più non gli stanavi
le lepri ed eri inutile. Io sentii
da lontano il suo schioppo. Accorsi. Vidi.
Nulla gli dissi, lo guardai negli occhi.
Bimbo, non piansi, lo guardai negli occhi.
Ti si appressava, il vile, e ti puntava
l’arma, spiando se mai t’avventassi;
poi ti palpava senza più tremore.
Ma tu vivevi, e gli levasti al viso
gli occhi velati d’agonia, ma senza
rancore, tristi, e piano gli lambivi
la mano, con la tua bocca fedele.

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