Renato Filippelli

dai fatti al web

Testimonianza su Gioacchino Paparelli

Durante i miei anni di liceo, Gioacchino Paparelli fu per me non una
persona, ma un libro: fu l’Antologia Foscoliana, gioiello di eleganza
interpretativa e di rigore analitico.
Debbo a quel testo, di cui ricordo perfettamente la fisicità, se alle soglie
degli anni di licenza liceale ero in grado di distinguere, in letteratura, fra
chi dice il già detto e chi intuisce e giudica con personale acribìa.
Gioacchino aveva il dono dell’ originalità, che nel campo della critica è
ancora più raro che in quello della poesia, ed era riuscito a cavarne tutti i
vantaggi possibili nel difficile approccio a un poeta come Foscolo, sul
quale la bibliografia aveva depositato una sorta di concrezione lavica.
Dalla prosa di quel libro appresi anche alcune finezze (o malizie) di
lingua e di stile, che Gioacchino, a sua volta, aveva appreso dal suo unico
vero maestro, Giuseppe Toffanin, con l’aggiunta, però, di colori, scatti,
compiacimenti, amabili teatralità, che erano di controllata origine suessana.
Lo conobbi di persona, a Sessa, una sera d’autunno del 1955. Saliva
Corso Lucilio con un fiasco di vino rosso in mano, ed era diretto a casa di
Luigino Simone, che lo aveva invitato a cena. Di questa gentilezza sembrava felice come un ragazzo, e tutti gli amici che incontrò ne furono informati.
lo, dopo averlo seguito per un tratto, mi decisi ad avvicinarlo e gli dissi
che lo avevo scelto come primo lettore e giudice dei miei versi. ”Anche tu poeta”.
Ricordo la degnazione della mano al mio scartafaccio, il gesto meccanico con cui lo intascò, la promessa di ricevermi, di lì a qualche settimana, a casa sua.
Allora Gioacchino era poco più che quarantenne; aveva una figura
aitante e una voce larga e sonora. Gestiva il suo fascino umano e professionale come un attore attentissimo alla norma della “sprezzatura”, che è, per dirla con Baldassarre Castiglione, l’arte di nascondere sotto apparenze di naturalezza lo studio e lo sforzo necessari al risultato della vera
eleganza comportamentale.
Non ricordò l’appuntamento, o lo eluse; ma non scalfì il cristallo del
mito che la mia fantasia di ragazzo aveva costruito per l’autore dell’Antologia Foscoliana.
Diversi anni dopo, gli inviai, per un giudizio, il mio secondo volume di
liriche, Il cinto della Veronica, che la Giuria del premio Carducci, presieduta
da Walter Binni, aveva inserito nella rosa finale, accanto ai testi di Antonio
Barolini e Giovanni Giudici.
Ebbi, a giro di posta, una risposta molto articolata, in cui le riserve
erano più numerose dei consensi. Ne fui deluso e persino amareggiato,
perché pensai che a condizionare il giudizio del critico fossero state insinuazioni malevoli da parte di sedicenti “amici comuni”.
Risposi ringraziando, ma anche ribattendo punto per punto, le osservazioni che mi erano parse troppo riduttive. Davo per certa la rottura fra noi, e avevo il torto di non mettere in conto la superiore qualità dell’intelligenza di Gioacchino: «Perché pensi che non ti abbia preso sul serio? La posizione del
critico 1′assumo soltanto con le persone che stimo, e mi sorprende che ti sia
sfuggita la stima che ho. della tua poesia e della tua cultura».
Chi scriveva in questi termini aveva, qualche mese innanzi, stroncato
le velleità artistiche di un suo vecchio allievo, che gli aveva inviato da
Scauri un manipolo di versi, accompagnandolo ad un quesito: «Sono un
pittore, O un imbianchino?».
Gioacchino aveva risposto, per telegramma, con una sola parola: «Imbianchino» .
A me scrisse, qualche tempo dopo, per chiedermi notizie sulla mia
poesia: «Che fa la tua Musa?».     ”     .”
lo risposi: «la mia Musa è una zoccola vecchia, ormai; e non mi molla:
ecco quel che combina».
Avevo allegato due liriche, poi raccolte nel volume Ombre dal Sud, e
Gioacchino con la consueta prontezza: «Caro Renato, grazie dell’occhietto
di quella zoccola vecchia della tua Musa. Invecchiando, fa meglio il suo
mestiere: come tutte le zoccole».
La sua arguzia, nell’ ambiente accademico era diventata proverbiale, ed io
ne ho goduto, per molti anni, nell’Istituto Universitario di Magistero di Napoli, dove fui suo assistente. Ricordo che, presentandomi ai suoi amici, diceva con una punta di affettuosa ironia: «Si chiama Filippelli e abita sul Parnaso».
Credo di poter dire che leggesse ormai le mie poesie non solo con
interesse, ma anche con un trasporto in cui doveva avere qualche peso la
comune appartenenza alla civiltà aurunca.
Gioacchino non aveva rinnegato le sue radici, e a volte, per giustificare
certe sue asprezze caratteriali, diceva: «In me porto pur sempre una frasca
di Sipicciano».
Quando si vedeva più raramente (aveva interrotto la docenza al “Suor
Orsola”) era immancabile la sua richiesta di notizie su Sessa e i Sessani, e
durante le soste in trattoria amava recuperare i suoi ricordi di professore al
“Nifo”, dove gli allievi lo avevano adorato, o i suoi trascorsi di calciatore
della squadra cittadina, nel ruolo di «prima ala tornante d’Italia» con suo
fratello Ugo e mio cugino Dante.
A partire dall’ estate del 1984 non l’ho rivisto più. I suoi assistenti al-
l’Università di Salerno, Antonia Lezza e Sebastiano Martelli, mi informa-
vano del suo declino e poi della sua solitudine in una piccola casa di
riposo a Cava dei Tirreni.
Due anni fa volle ringraziarmi, per telefono, del dono del mio Plenilunio nella palude, che gli avevo inviato sperando che gli orizzonti dell’assoluto religioso lenissero la sua pena di esistere e aprissero nuovi approdi al suo spirito, rimasto vigile e vivo.
Mia suocera, raccogliendo la sua telefonata, si spaventò, giacché dall’ altro capo giungeva una voce roca e farfugliante come quella delle persone sopravvissute a una paralisi.
Era ciò che restava di una fra le voci più belle che mai avessi sentito
nella mia vita. Riuscì a dire che voleva compiacersi con me e che aveva
cominciato a scrivere qualcosa per il mio libro. Mi giunse anche uno
spezzone di lode («di volo alto»), che mi commosse fino al pianto.
lo gli avevo scritto: «Ricordi come tenevo a un tuo giudizio?».
Delle sue esequie, sbrigative e senza segni di condoglianza ufficiale,
nessuno pensò di avvertirmi. Ne ebbi notizia tre giorni dopo, a Scauri, da
Nevio De Tommaso, mentre passeggiavo sul lungomare.
Era scomparso un uomo di 86 anni, da tempo immobilizzato a letto e
forse impaziente di liberarsi nella morte; ma avvertii lo strappo che dà la
perdita di una persona di famiglia, e mi parve che il mondo non avesse più per me senso e valore.

Renato Filippelli

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