Renato Filippelli

dai fatti al web

Ombre dal Sud (1971)

Parole alla figlia Fiammetta

(Per il giorno della sua nascita)
Quando venne il tuo grido nella luce
dalla camera chiusa sul dolore
dalla carne materna,
io presi a tremare di te,
a sentirti nell’universo,
così fragile, così fatta di sogni
senza conoscerti.
Una suora infermiera mi sfiorò -
una mano fanciulla, uno svolante
sorriso -;
aprì un’ampia finestra, guardò il cielo;
poi mi disse il colore dei tuoi occhi.
Lei discese al giardino, si fermava
tra gli alberi,
seguitava il suo passo trasognato,
ed io pensai che quella
creatura, così lieve e vagante;
portava di te l’annunciazione
angelica alle cose dell’infinito …
E poi t’ebbi in un riso ebbro trionfale,
ti portai nella luce aspra e radiosa
della finestra sopra il mar Tirreno.
Tu eri tutta raccolta in un sopore,
ma sentivo il tuo cuore palpitare.
Eri mia figlia. Ed ebbi
la certezza di Dio sopra quel mare.

Ancora un distacco

Ebbi intorno una luce inesorabile
e l’aspro vento che s’affila
sulle pietre dell’albe ai nostri inverni.
Andavano brusii
familiari e remoti
di greggi e d’uomini,.
stanchezze trasognate alle colline.
E allora mi misi ad aspettare
l’Addolorata, che mi facesse
un cenno di tristezza,
un sorriso per trattenermi.
Ma era caduta
sulla pietra del focolare.
E la gente del popolo che mosse
la mia culla e m’aspettò
fiorire e m’insegnava
l’aspre parole della sua speranza,
la vecchia gente le diceva: «Torna …
Quello ritorna quando tu sei morta.
Per vendere la casa vuota,
dove l’hai partorito con dolore ».

Corpus Domini

Cristo, davanti alla mia casa morta,
nessuno che ti sparga la giuncata
di mirti e di papaveri. Sia fatta
la luce vulnerata dell’infanzia
sulla cerchia dei colli che cammini.
Cristo, se mescolassimo
le nostre tristezze
forse inginocchieremmo
tutta la pietà degli uomini.
E si fa sera. in te sono un groviglio
di serpe che s’annida,
quando gli passa un torpore,
un freddo all’improvviso nelle spire.

Ed erano notti…

E all’improvviso
quel tuo peso di febbre sul mio sonno.
Concitato alitarmi di parole
sulla faccia e sul cuore: «Cristo
è venuto sul molo. Ascolta, come
il tuo passo del tempo
d’amore tenta la mia porta: è l’ora,
è l’ora … »
Ed erano notti
che l’acque ed i venti grecali
sbattevano al largo le vele,
le povere vele dell’alba.
Negli occhi tuoi fermi, lontani,
cosi le vedevo morire.

Giuseppe Leggia, «Mastropadreterno»

So che vivi: sei mastro di formelle
di vinci e sei fiorista di ghirlande
ai morti;
ma fosti pieno di furori e luna,
fosti lupo mannaro e ti braccavano
la notte santa che facevi un’ombra
sulle vetrate, e ti sfiniva l’alba
in un gemito lungo di fanciullo.
Ma certe sere di « manchenza » ai crocchi
attoniti scioglievi il tuo rancore
d’esistere, dicevi assurde storie
di genti nostre superbiose e torte:
«Pasquale Verre fece mala morte.
Sterrava le cisterne, al buio pisciava
sulla vena sorgiva che trovava.
Nel vino aveva un riso, raccontava.
Lo trovarono al rio di campo felci,
la faccia al cielo, in bocca le due coglie.
E giravano a largo: anche la moglie ».

Ho gridato dai palchi

(alla mia gente)
E quando t’ho sentita
tremare alle parole lusinghiere
dell’uomo d’altro sangue, l’avvoltoio
di politica venuto
sul tuo dolore d’oltre le colline,
per non vedere i tuoi occhi,
per non morire di rancore,
io mi sono nascosto nella sera.
Oggi ancora potrei,
forse, muovere l’ombre
della mia gioventù sui tuoi sagrati
e darti il senso delle nuove strade.
Ho gridato dai palchi
anch’io per te sugli uomini negrieri.
E andavo cosÌ pallido, reclino
sul peso (tu dicevi) dei pensieri.
E ti scrivevo poesie d’amore.

Insegnate a chi torna le parole

O contadini dei trenta casali
di Sessa,
o Nemesi implacate dai ritorni,
non ditemi quei giorni
che vi lasciai nel sole dei sagrati
coi figli che dicevano il mio nome.
Accendete al figliol prodigo il fuoco.
Insegnate a chi torna le parole
che rinnovino il patto.
Alzate sopra le parole il vino.
Risplenda ai morti la luce perpetua
della speranza.

Natale 1965

In questa chiara notte
più solo di Giuda
non c’è, forse, che Cristo.
Così lontano dalle vostre case,
dove aspettate scendere da stelle
quel povero sorriso nelle culle,
da non so quante notti di Natale,
m’avete cacciato,
pieno d’ululi sordi,
come un lupo mannaro.

Nel vostro respiro

(alla mia gente)
Nelle chiuse cantine
le sere approfondivano il respiro.
Questo è un ricordo: la fonda tristezza
del vostro vino
sulla carne patita del mio volto..
Come animalità folte d’istinti
materni foste sopra la mia vita:
tenerezze inquiete di presagi.
Cosi crescevo nel vostro respiro.
Ma quando mi partii dal vostro sangue,
noi più per nome non ci chiamavamo.

Non fatemi gridare

O tentennanti larve
bifronti della vita e della morte,
pidocchiose canizie di Charlots,
o vecchi avari come i neri
santi che vi scolpiste nelle chiese,
pronti a diseredare,
non fatemi gridare come un falco,
stringendomi sul cuore con le mani.
lo prego il moto tenero degli occhi,
ma già l’odio vi è dolce come il pane;
e chi, nato di voi, parte lontano,
sempre torna a morire di silenzi.

Nuove parole alla figlia Fiammetta

Perché, vedi, io non so
aprirti le vie serene
che portano a Dio.
E non potrò sorreggerti
con quelle mani solari
ch’ebbero rudi e persuasi
uomini, come mio padre.
Perché a volte mi prende una pietà
oscura di te che sei la figlia
di un uomo fragile e incerto
che troppo aspetta dalla morte,
e ha paura di spaventarti,
se un poco t’avvicini al suo silenzio.
E un giorno dovrà pure
domandarti perdono del tuo sangue.

O morti, ansiosi morti …

Il Sud vi bruciò d’un fermo sole,
o morti, ansiosi morti, alla mia vita
come radici attorti, timorose
parvenze onde s’infolta
un lume declinante.
Dell’ombre che da voi scendono al mare
la sommessa vicenda
io sento su di me passare, come
sente la terra farsi ampio brusio
dell’erbe al giro rapido del vento …

« Stasera metti il tuo scialle»

Stasera metti il tuo scialle,
risali la montagna,
vai dalla donna del responsorio,
fai parlare di me coi morti.
Se la preghiera fa gorghi,
un soffio profetico t’alza
una bianca violenza sul capo,
bestemmi la femmina
che strinse al più dolce dei figli
la doppia fattura: non possa spirare!
Piangi, disciogli un tuo grumo
di vecchi spaventi,
assurda e dolce mendica,
o madre che stai di traverso
sulla mia soglia, non posso
andare alla luce di un giorno
senza passarti di sopra.
Ma se vanno fluenti
le parole che svegliano i morti,
torni col tuo più giovine respiro,
traversi come un’ala il plenilunio,
accendi una gran fiamma sugli alari.

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