Renato Filippelli

dai fatti al web

Requiem per il padre (1983)

Critici e poeti della mia patria…

Critici e poeti
della mia patria, ai quali ho dato in dono
la tua storia tramata dai colori
d’un magro arcobaleno,
dicono o fanno intendere che altro
occorre alla poesia. Frugano, esperti
rigattieri, il panno
della lingua, negano a se stessi il cuore
dell’uomo, gettano un abbaglio
di terra calcinata alle sorgenti
della vita. E’ un’altra
morte per te, la tua seconda morte;
per me nuova, più inerme, solitudine.

Il tuo declino non ebbe conforti

Il tuo declino non ebbe conforti
d’umana carità: morti o lontani
quelli che riconobbero al tuo volto
ancor giovine i segni d’un’antica
umanità bandita. Io t’aggiravo
il silenzio come un cucciolo festoso
e deluso, lasciavo echi ai confini
della valle: “Gente
dei trenta borghi,
mio padre muore sulla terra, solo.
O gente di chiuso rancore,
non mi colpire nel cuore del padre.
Da lui mi venne quest’animazione
d’antico sangue, questa
pietà delle memorie”.

Oggi ho parlato al tuo Cristo

Abito ancora la casa del molo,
mi corico sulla tua ombra,
ascolto il vento,
che ancora ha tante notti da vegliare.
Oggi ho parlato al tuo Cristo delle acque,
che ti tolga alla notte, ti seduca
a luminose spire.
Oggi gli ho detto:-”Cristo, miserere
di chi batte su te come l’assedio
del mare sulla terra”-.

Scendevano le brume

Scendevano le brume e l’acre odore
delle sere dei borghi montanari.
Io avevo gli occhi della volontà
limpida e dura, ti parlai sereno.
Tu rimanevi a un tuo silenzio cupo.
Sulla soglia di pietre io dissi:”Addio”.
Tu levasti lo strazio dei tuoi occhi,
che fu carezza d’una mano rude;
poi ti curvasti al ferro degli alàri.

Noi siamo, padre…

Noi siamo, padre, come i lumi accesi
sulla strada Cascàno-San Felice:
esili lumi umiliati
dalla lontananza del cielo, eppure trepidi
di tutte le speranze di cui il giusto
Dio seminò al principio del suo spazio,
la sera delle terre addolorate
da Lui nel dolce Sud.

Ti proteggano i colli…

Ti proteggano i colli, e le sommesse
vene dell’acqua trovino le strade
per lambirti la fronte, e la tua terra
ti sia sul cuore così lieve,
che l’apra il vento, come cieli o vele,
quando ti vorrai mettere in cammino.

Scelsero la tua terra

Vanno i giovani a grasse
terre e femmine chiare
del Nord. Ed oggi,
nell’anno di Dio 1958,
gli Americani piantano i cavalli
di frisia ai fianchi del tuo Massico.
Scavano tunnel per una centrale
d’atomi, grande come una città.
Scelsero la tua terra
come una donna perduta.
Non bisogna pensare
la serena tristezza,
quella consegna di fede
all’ultime venute creature,
ch’era nelle canzoni contadine,
al tempo dei tuoi giorni di ragazzo.

Io vegliai la tua morte

Io vegliai la tua morte
per tutta la notte,
ti parlai come a un figlio bambino
che s’avventuri nel buio,
ti dissi piano, come preghiere,
tutte le mie poesie scritte per te,
che un selvaggio pudore ti nascose
per tanti anni.
Tentai di sollevarti
le palpebre per rivederti gli occhi.
Entrava dalle imposte
un pò di spazio celeste,
la voce delle foglie nel vento
dell’orto, un ritmo
di tempo nell’eternità.
Io dissi a Dio:-Nel giorno
della misericordia,
guardami con gli occhi di mio padre-.

E andavo per la luce terrestre…

Non solo, fra le creature
viventi, gli uccelli mi rapivano;
ma la tua vita, e ti credetti santo.
Ricorderai le notti che braccavo
l’ombra tua nel vigneto sotto luna.
“S’è inginocchiato per chiamare il sole.
Prima dell’alba sparge di ginestre
gli altari dei suoi monti.”
E andavo per la luce terrestre
in quella meraviglia leggera
d’avere un padre selvaggio celeste
e una casa prediletta dagli uccelli.

A luglio di prima mattina…

A luglio, di prima mattina,
che ancora c’era un fresco di stelle,
bruciavamo le stoppie.
Mio fratello era un biondo demone,
rideva, affascinato dalle fiamme,
balzava tra i filari,
disciplinava i roghi.
Tu ti beavi di quel primogenito,
grave levavi la tua lode.
Ma quando più stoccava sul tuo capo
la canicola e l’orciolo era vuoto,
allora di me che domandavi.
Mi mandavi alla fonte di campo di felci,
sulla strada battuta dalle ombre
d’una cattedrale di verde.
E se tardavo a ritornare (io
trasognavo, giocavo un mio mistero),
appena mi accennavi con la mano:
non avevi il tuo aspro rimprovero,
perché mi sapevi poeta.

Da quelle colline…

Tu eri stato
in America un uomo carnale.
Ma quando tornasti, la donna
dall’umile sorte portava
due moggia di terra.
E un giorno cercasti il tuo senso
di vita, le oscure radici,
quel giorno che t’eri
buttato supino in un solco.
Da quelle colline deterse,
quiete discesero l’acque
e l’ombre dei morti: passava,
cennante amorosa, l’infanzia.
E allora cercasti un destino
ai giorni da vivere ancora.
E già trascorrevi col passo
guardingo tra i solchi, braccavi
la talpa che guasta, sospeso
leggevi vicende di cieli.
E quando battevi il tuo grano,
il vento portava la voce
di quelle tue larghe canzoni
dal monte alla casa materna.
Poi mi piantasti
nell’umile donna, convinto,
come un albero.

Mi svegliava l’odore…

Venivi prima nella mia stanza,
( io sono dei tuoi figli
quel che più meravigli
della tua irrequietudine fantastica);
mi svegliava l’odore
selvaggio e mattutino
della tua giubba d’uccellatore
e il frullo prigioniero
nella “cipolla” di giunchi,
sospesa a spalle a modo di sombrero.
Largo ridevi : un fauno. A toccarti,
scrollavi la rugiada come un albero.

Un altro aprile passa lo stradone

è questa la mia pena:
che tu hai toccato
con le tue mani inutili e tremanti
l’agonia degli alberi, e hai veduto
passare l’anarchia d’una malerba
dove un tempo stendevi i tuoi maggesi
in simmetria amorosa
e disciplina vigile di semi.
Che tu hai veduto, o padre mio, morire
prima di te le tue creature.
Chiuso ti porto come m’apparisti
quel giorno che tornai sulla tua terra,
dopo un oblio, di tua morte pensoso,
e a me, ch’ero tuo figlio, desti conto
di quel vasto abbandono delle cose:
“Nessuno più che venga a lavorare;
gente che ti cercava ora ti sghigna
sul viso, e tu preghi col cappello
levato, e quelli ridono tra sbuffi
di tabacco straniero…”
E’ troppo tardi per forzare il cerchio
del tuo silenzio, dirti tutto il cuore?
Un altro aprile passa lo stradone,
incurva ai monti la tua ombra,
impersuasa pena,
e forse avrei dovuto
persuaderti alla morte in un mattino
d’aprile che la strada ci fu lieve,
ed io sentii che avevi un ritmo
eguale nel mio sangue e che t’avrei
ritrovato nel fiato della terra.
Ora ti vorrei dire che la tua
vigna s’è tutta ordita nella luce,
le tese alte, simmetriche, già vive
d’un balùgino verde sulle gemme.

A volte vorrei scuotere le sbarre

A volte vorrei scuotere le sbarre
del tuo cancello, sobillare ai morti
la sorda mansuetudine, gridare la paura,
la solitaria coscienza del superstite
sul fiume, alla rapina dell’oblio.
Non dimenticate il colore della terra
posata sulla vostra cecità
profonda, le vie del Sud tortuose come gl’incubi
dell’antica speranza. Risorgete.
Andate a battere le case dei viventi,
rompete gli accordi futili, il ritmo
degl’idilli notturni, inventatevi un respiro
potente, le voci cupe e ferme,
che aspettano vendetta.
Mettete ai bracci delle vostre croci
i fermagli di luce delle vipere.

Quando il tradimento fu compiuto

Quando il tradimento fu compiuto
e il mercante si giocò il poeta,
io volli coricarmi
sulla tua terra per l’ultima volta.
Mi comunicai della tua carne, del tuo sangue,
del tuo sudore odoroso,
mi rivoltai nel solco
come un ciuco in amore;
poi piansi bocconi e pensai
che il nonno di mia madre
stette morto così.
Il giorno era d’autunno,
e quando me ne andai, mi parve
udir un vento leggero,
quasi un filo di gioia
sull’orlo delle foglie
morte: era la serpe felice
del passo dell’uomo
in quella solitudine.
E poi vidi un liquido
di luce salire a dilatare
il respiro degli alberi, e pensai,
con nera angoscia, i giorni che dicevi:-Gli alberi
tremano di gioia
quando li guarda l’uomo-.

Cadde tutta la vigna

Venne il tedesco, come fece notte,
ti batteva la vigna, sangue tuo,
e t’alzava sul volto le sue torce.
D’attorno ti girava con lo sghigno,
prostrava i tralci teneri, le barbe,
piantava le mitraglie e ti frugava
negli occhi per vederti nello strazio.
E tu fosti una statua di silenzio
coi figli stretti intorno ai tuoi ginocchi,
e mamma ti guardava dalla soglia.
Cadde tutta la vigna giovinetta.
Tu rimanevi come un capitano
fiero davanti alla sua schiera morta.
E il tedesco lurco non ti rise
più, rispettava quel muto dolore.

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