Renato Filippelli

dai fatti al web

Ritratto da nascondere (1979)

L’albero d’ulivo

Rughe d’antico spasimo,
dissidio tra la viva
linfa che scorre alle sue venature
e il muschio che gl’intasa le midolle
porta nel fusto, ma sui rami luce.
Così da fonde radici terrene
rompe, fiore lucente, la poesia.
E il poeta va tra gli uomini
con l’anima buona;
volge l’oscuro dolore
in serena feconda malinconia.

Bianchi morti bambini

Ed anche in questa notte
battuta dai richiami. dell’inverno,
dell’onda del tuo respiro,
evado, o donna, alla mia terra, passo
in punta di piedi sui solchi
dei bianchi morti bambini. Si duole
delle sue gemme l’albero del Sud.
Ed ora so che furono le febbri
materne, il vino ardente
del seno nelle tregue meridiane;
furono i geli, i vortici
stregati sulle culle di verbena.
Il buio li prese ai ritmi
d’antiche ninne nanne senza gioia:
«Sopra la Rocca
ci piove e ci fiocca,
quando è buon tempo ci soffia lu vento ».

Cantavano sull’aie l’antica resa

Donne nostre che stettero alle soglie
padronali - cariatidi cui il sonno
del tempo antelucano piega il capo
sul cuore -, trasalivano alla voce
brusca dell’uomo, al cenno che adempiva
la speranza del giorno di lavoro.
Madri nostre che andavano al palude
di Cèllole, ai pianori di Teano,
partorirono, a volte, in rapida
doglia, lungo la strada carrozziera.
Cantavano sull’aie l’antica
resa al destino, le canzoni
pacate di lontane schiavitù:
« Salute allu padrone dellu granu».

Il giudizio dei morti

Speso con mano prodiga
fin l’ultimo talento, indugio al guado
per l’altra riva, e temo
il giudizio dei miei morti
più del giudizio di Dio.
E quando, o morti, mi giudicherete,
io sarò steso ai vostri piedi,
bocconi sulla terra, povera
ombra macchiata di sangue, ciechi
gli occhi dal pianto
della vergogna di me stesso, la bocca
senza il respiro di chiamarvi il nome,
chiusa all’ingorgo delle parole
risorte dalle plaghe dell’infanzia.
Voi porterete, con tenue
passo, lontano le vostre lampade accese,
ed io sarò nella notte
del rancore di Dio,
il più solo dei morti, e non potrò
dirvi che vissi
con voi, nel sole della vita, lievi
giorni d’una segreta carità,
poi fui l’albero leso alla radice.

Parole alla madre

Quando sarai morta,
io scaccerò dalla camera ardente
tutti i profanatori del tuo silenzio,
mi chinerò sull’ultimo palpito
che avrai serbato per il mio ritorno.
Poi, come giorni verranno
che sbatterà l’ombra del tuo sorriso
sul nostro confine,
io t’incarnerò giovine e bella,
ti porterò sulla spiaggia del mare.
Qui aspetterò che venga
al suo primo convegno, ebbro nel cuore,
l’uomo dalla voce serena
che t’animò sul seno
di vergine saggia
con le parole di sole.
Riconoscerò il passo di mio padre,
il ritmo del vostro respiro
come quando giacevo nella stanza
attigua, in quei mattini d’infanzia.
E se ripenserò che avesti
tanto dolore il dì che ti recisero
la carne del cordone ombelicale
e andasti così curva
per tutti i miei silenzi,
e, prima fra gli uomini, mi dicesti poeta,
vorrò riempire l’arco del tuo cielo
terreno con il pianto dell’allodola
quando ha perduta un’altra
delle sue strade verso !’infinito.

Rugiada

Fiorita d’occhi
notturni, sorriso
di fragili denti
lucenti
fra rosei labbri
di bimbi su rami di pesco.

La sorgente

Vergine bianca,
ti sorpresi al novilunio
su torpido macigno,
discingere il velario.
Un attimo, e fuggivi
con balzi di giovenca.
rompevi un fresco di risate a valle.

Sorte

« A egregie cose il forte animo accendono
l’urne dei forti »: e voi nelle precarie
fosse a marcire, foste eroi, l’impasto
d’argilla che resiste alla mordente
forza del sangue; e non c’è forte
poeta che racconti
la vostra sorte ad uomini lontani.
Solcate di presagi, le mie mani
aride ricompongono
brandelli d’un ritratto da nascondere.
La mia bottiglia
getto in un mare immobile e notturno.

Sto con le loro voci

Tu mi chiedi, sgomenta della luce
arida e chiusa dei miei sguardi, antiche
parole, una certezza di cammino
per le nostre creature, chiami sogni
lontani, l’ombre nostre che si giunsero
all’acque del Volturno; ma non ho,
vedi, che mi trattenga alla mia sorte
altro che la marea
sorda, implacata a battermi,
della speranza dei miei morti; e ancora
m’addosso al muro del sagrato,
davanti ai roghi della notte
di San Giuseppe,
spezzo il pane crociato
della fraternità con la mia gente.
Sto con le loro voci
aspre e profonde di pudore,
di gioie ferme e tranquille.
E ci son quelli che mi benedissero
l’infanzia e poi mi tolsero l’amore,
il moto dello sguardo.
Porto con me la loro morte, chiusa
nella mia scorza: frutto che matura.

Valeria del Tirrone

Questa aspettava nascere le prime
letizie puberali, l’acque a scroscio
della fiumara delle primavere
a Campofelci, dove falcavamo
la luce a danza e spogliavamo il fiore
del sesso. Povera
bestia in amore, stette alla mercé
dell’odio, misurarono il suo spazio
per la vita, e tremava come i salici,
cadeva in rituali
silenzi, nei riposi trasognati
della terra rinchiusa sul suo seme.
Un giorno del Cinquanta, che Michele
Orsillo si buttò fra le rotaie,
e la folla impietrava sul carname,
lei sola ricompose, brano a brano,
la straziata figura in un lenzuolo,
e lo portava sulle spalle, andava
verso la chiesa di Cascàno.
Anche per lei una lampada
s’accende e resta nella solitudine.

Lascia un commento

You must be logged in to post a comment.